Franco Sotte - La Questione Agraria, n. 62, 1996
Premessa
Lo scopo di questa nota, a quasi tre anni dalla prematura scomparsa di Alessandro Bartola, è ricordarne il contributo scientifico attraverso la rilettura di alcuni suoi scritti. E’ ovviamente impossibile una rassegna completa del lavoro di un ricercatore così profondo e con vasti interessi come era Sandro, per cui mi sono imposto a priori alcuni limiti. Il primo è quello di concentrare l’attenzione soltanto su alcuni argomenti che sono stati sempre presenti nella sua riflessione fin dai tempi del suo incontro ad Ancona con Giuseppe Orlando: il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo economico in Italia e nelle regioni a "sviluppo diffuso" come le Marche, la programmazione in agricoltura, il rapporto tra mercato e politica agraria. Il secondo limite riguarda le fonti dalle quali sono stati attinti i riferimenti bibliografici e le citazioni testuali: ho scelto infatti di considerare unicamente lavori che Sandro ha firmato da solo (e in qualche caso con altri), dove è in ogni modo certamente lui ad esprimersi.
Il modello di sviluppo italiano ed il ruolo dell’agricoltura
C’è una frase di Bartola che, a mio avviso, riassume al meglio il suo giudizio sul mancato sviluppo dell’agricoltura nel dopoguerra nel nostro Paese: «I due connotati […] della politica agraria italiana nel periodo precedente l'istituzione delle Regioni sono l'incapacità di orientare lo sviluppo tecnologico secondo le esigenze delle "cento agricolture italiane" e l'incapacità di sollecitare l'integrazione delle imprese per risolvere ad un tempo i problemi dell'imprenditorialità e del mercato» (Bartola, 1983a). In questa frase mi sembra di trovare tantissimi dei giudizi che gli erano propri: la critica al centralismo della politica agraria in Italia, il giudizio sulla sua passività, nel senso della sua incapacità ad "orientare lo sviluppo" e a "sollecitare" le energie imprenditoriali, la necessità di rompere l’isolamento delle imprese, l’affermazione del ruolo cruciale del mercato, soprattutto se la competizione tra le imprese è tutelata e garantita.
La sottovalutazione del ruolo dell’agricoltura nel corso dello sviluppo economico italiano ha molte sfaccettature. In uno dei suoi primi lavori Bartola riporta un significativo elenco delle misure mancate e degli errori di politica agraria che, a suo avviso, spiegavano l’arretratezza delle campagne:
«Il livello professionale e imprenditoriale degli agricoltori, cresciuto su decisioni di produzione tipiche di un'economia non mercantile, era notevolmente insufficiente. Una giusta valutazione di questa carenza avrebbe dovuto far predisporre vasti programmi di istruzione professionale, di assistenza tecnica, di sperimentazione e divulgazione» (Bartola, 1976).
D’altra parte, nel caso italiano, l’agricoltura non poteva essere affrontata con misure centralistiche e generalizzate sia di tipo strutturale che di sostegno indiretto dei redditi: occorre - dice - «rifiutare i provvedimenti indifferenziati e generali e considerare con particolare cautela la politica di sostegno dei prezzi» (Bartola, 1976). Solo una politica decentrata e basata su una autonomia effettiva è in grado di affrontare i problemi delle "cento agricolture" del nostro Paese; ma ciò richiede anche una consistente capacità di coordinamento in grado di spingere sulla strada dello sviluppo anche le aree e le situazioni amministrative più in difficoltà o più refrattarie. Per Bartola infatti «è dalla soluzione del problema delle aree difficili che dipende la tenuta del sistema nel lungo periodo. […] Il centro di attenzione della politica agraria italiana non è costituito dalle pianure, di limitata dimensione complessiva e comunque capaci di autonomo sviluppo, ma dalla montagna settentrionale, dalla collina centrale e dalle aree interne meridionali: qui sono le difficoltà ed è per risolvere i problemi di queste aree che ci si deve attrezzare con serietà scientifica e sistematicità» (Bartola, Sgroi, 1984).
C’è poi il problema della aggregazione delle imprese per far fronte al mercato: il «passaggio da un'agricoltura di autoconsumo ad un’agricoltura di mercato richiedeva interventi complementari nei settori che commercializzano i prodotti agricoli e nei settori che forniscono i mezzi tecnici e finanziari» (Bartola, 1976). In questo caso la critica si concentra in particolare sulla occasione perduta della mancata riforma della Federconsorzi nel dopoguerra, dopo la burocratizzazione del ventennio fascista: «i consorzi agrari, restituiti al controllo e alla partecipazione dei contadini, con le loro strutture diffuse in tutto il territorio nazionale, avrebbero potuto infatti concorrere in maniera determinante allo sviluppo dei progetti di assistenza tecnica, di trasformazione aziendale, di integrazione orizzontale e verticale dal basso» (Bartola, 1976).
Un ruolo fondamentale avrebbe dovuto essere giocato dagli input non convenzionali. Tra questi in primo luogo dalla ricerca. Infatti in Italia, Paese eminentemente agricolo, «la ricerca doveva orientarsi verso tecniche che permettono l'aumento della produttività agricola senza richiedere l'impiego di dosi massicce di capitale industriale». Questo argomento si inserisce in un giudizio molto più generale sull’«appiattimento tecnologico» registrato nell’agricoltura italiana. Al riguardo egli osserva che: «a cavallo degli anni Sessanta il settore [agricolo] era strutturato su una combinazione di risorse caratterizzata dalla formula: più lavoro e meno terra, più capitale circolante (fattori intermedi) e meno capitale fisso. Da tale organizzazione si sarebbe potuto attendere un sentiero di sviluppo tecnologico che, valorizzando il lavoro in quanto risorsa abbondante, avrebbe dovuto far crescere la produttività ad ettaro tramite investimenti di tipo labour-intensive. […] Di fatto la intensificazione produttiva è stata realizzata facendo leva esclusivamente sull'impiego di fattori di consumo; alla inferiorità strutturale (in termini di superficie per addetto ) l'agricoltura […] ha risposto riducendo fortemente le quote occupazionali e realizzando l'aumento delle rese con impieghi intensivi di materie prime. Ad un modello di sviluppo che potremmo definire "appropriato" sia alla quantità che alla qualità delle risorse disponibili, si è quindi sostituito un modello in parte "estraneo"» (Bartola, Sgroi, 1989).
Infine Bartola richiama il tema della questione fondiaria. Le piccole aziende italiane richiedevano un «deciso e vasto programma di riforma agraria (che avrebbe dovuto risolvere definitivamente anche l'antiquato rapporto mezzadrile) ed un programma incisivo di ricomposizione fondiaria» (Bartola, 1976).
C’erano dunque una serie di «condizioni endogene» che spiegavano l’arretratezza delle campagne ed il fallimento dei tentativi di rilancio. Ma questi operavano in un contesto più complessivo. Agivano infatti negli stessi anni anche delle «variabili esogene»: «in Italia, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale [è stato] imposto un processo di industrializzazione "ad ogni costo" a cui sono stati condizionati e resi funzionali la risorsa terra e lo sviluppo del settore agricolo» (Bartola, 1976). Questa azione di subordinazione dell’agricoltura si è realizzata mediante «il contenimento della produttività e quindi dei redditi del settore contadino [...che era chiamato] a fornire la gran parte della manodopera necessaria allo sviluppo industriale, [a garantire] il contenimento dei salari industriali. [...] La scelta di trascurare il "fattore domanda interna" avrebbe naturalmente comportato lo scambio esportazioni industriali contro importazioni agricole» (Bartola, 1976)
Una sommatoria di cause interne ed esterne, dalle quali deriva una guida debole e incerta ed un prevalere di orientamenti tattici senza una visione strategica dello sviluppo. Non mancano anche accuse alla miopia delle organizzazioni agricole: «l’operatore pubblico, condizionato da un lato dal potere economico del capitalismo agrario e dall'altro dal potere politico dei piccoli contadini proprietari e della sinistra, ha prodotto interventi frammentari, contraddittori e che seguono lo sviluppo anziché orientarlo. Fra l'agricoltura con un nucleo portante contadino ed un’agricoltura con un'ossatura di imprese con rapporti di produzione di tipo capitalistico, ha sempre formalmente preferito la prima ma senza far discendere da tale scelta tutte le azioni strategiche necessarie. La riforma agraria, il piano decennale per lo sviluppo dell'agricoltura, i due "piani verdi", il blocco dei contratti di mezzadria con relativi mutui quarantennali, non sono altro che le più importanti espressioni di questa scelta formale» (Bartola, 1976)
Il giudizio sull’«assenza di visione strategica» è presente in Bartola anche quando analizza la politica agricola comunitaria. La dimensione europea è per lui un riferimento continuo e costante, ma anche a quel livello non manca di notare come: «i risultati deludenti della Pac non dimostrano solo l'inadeguatezza degli strumenti impiegati, ma anche la limitatezza di prospettiva della politica economica attuata» (Bartola, Sgroi, 1984). Infatti «le agricolture di mercato dell'Europa occidentale manifestano una profonda esigenza di mutamento degli attuali "criteri centralizzati" di direzione e controllo comunitario, unita alla altrettanto urgente necessità di sviluppare un effettivo "decentramento" basato, prima che su astratte definizioni liberistiche, innanzitutto sullo sviluppo delle strutture fondiarie tecniche e sociali» (Bartola, Sgroi, 1984)
L’ingresso in Europa pone d’altra parte con ancora maggiore evidenza un problema di adattamento all’interno del nostro Paese. Si tratta infatti di compiere uno sforzo straordinario di adeguamento istituzionale, normativo e di politica economica e sociale che consenta effettivamente di collocare in Europa l’agricoltura italiana recuperando i ritardi del passato. «La nuova Pac - egli infatti dice - potrà pure spostare il baricentro in favore della politica delle strutture, magari articolata regionalmente e verso una politica dei prezzi più equa e quindi più favorevole alle produzioni mediterranee, ma a poco varrà per la riconversione produttiva se le Regioni non sapranno dotarsi di istituti e di personale altamente qualificati per regolare attivamente il cambiamento e curare l'elasticità di risposta delle strutture produttive. Fin quando si disporrà di strutture burocratiche capaci solo di accompagnare le tendenze spontanee, l'esito del processo competitivo è del tutto scontato: quote elevate di "agricoltura" continueranno a procedere verso l'emarginazione e l'unico effetto "positivo" sarà di aver ripartito con altri il costo finanziario dell'emarginazione» (Bartola, 1983a).
Alle origini dello sviluppo diffuso
Nel contesto delle riflessioni fin qui riportate sullo sviluppo economico italiano, si inserisce il contributo di Bartola sul tema dello sviluppo diffuso e del ruolo dell’agricoltura in esso. Le ragioni sono ovviamente anche geografiche: l’economista agrario nelle Marche ha sotto gli occhi, dal decennio Sessanta in avanti, una trasformazione rapidissima nell’ambito economico, sociale, territoriale, che investe in pieno la regione in cui vive. I caratteri di questa trasformazione sono originali, tanto che gli economisti necessiteranno di una nuova terminologia: "sviluppo diffuso", "decentramento produttivo", "economia di distretto", "economia sommersa". Altre volte è il riferimento geografico ad assumere rilievo: "terza Italia", "NEC", "via Adriatica allo sviluppo", "modello Marche". L’individuazione di questa nuova realtà dell’economia italiana condurrà gli economisti, specie nei primi tempi, ad un giudizio superficiale sul ruolo, sia storico che nella prospettiva, dell’agricoltura. Dice Sandro a riguardo, riferendosi alle Marche: «l'ottimismo con cui, specie nella nostra regione, vengono considerate le conseguenze prodotte nel settore agricolo deve essere considerato con molta preoccupazione e denota mancanza di conoscenze specifiche del settore o la solita impostazione che tende a collocarlo in posizione funzionale e subalterna allo sviluppo industriale» (Bartola, 1983b). D’altra parte, «non sempre la mentalità urbano-industriale costituisce fonte di suggerimenti coerenti per l'organizzazione dei processi produttivi agricoli» (Bartola, 1983c).
L’euforia dello "sviluppo spontaneo" porterà anche, non di rado, ad una sottovalutazione del ruolo dello Stato e delle politica economica.
Il contributo di Bartola è in due direzioni: nella interpretazione delle origini agricole di molte esperienze di sviluppo diffuso e nella analisi delle condizioni necessarie per garantire che quello sviluppo sia duraturo e non produca squilibri tra settori produttivi e tra economia, ambiente e territorio.
«Qualsiasi analisi condotta sulla evoluzione della struttura produttiva di questa regione non può avere altro punto di riferimento centrale che il rapporto di produzione mezzadrile» (Bartola, 1979). Il contratto mezzadrile (ed il suo mancato superamento nel dopoguerra con altre forme contrattuali) spiega infatti l’origine sia della crisi dell’agricoltura delle Marche e delle regioni dell’Italia centro-settentrionale dove essa era diffusa, sia l’origine dello sviluppo industriale.
Il giudizio va però articolato. Infatti storicamente «...l'istituto mezzadrile in sé, ovvero la forma di impresa tramandata per secoli nella condizione in cui si trovava alla fine dell'Ottocento, era un contratto perfettamente funzionale al prelievo del surplus prodotto nelle aree agricole più fertili della regione» (Bartola, 1992).
Ma è nel secondo dopoguerra che la situazione cambia in relazione all’integrazione dell’economia mezzadrile nel mercato, alla disponibilità di nuove tecnologie ed al riequilibrio del rapporto tra lavoro e terra. «Nella misura in cui la leadership del proprietario si riduce e aumenta il potere decisionale del mezzadro, la gestione dell'impresa diventa sempre più un compromesso che media due funzioni obiettivo tendenzialmente divergenti: il mezzadro, per il quale il lavoro è fatica e diminuzione del tempo libero o riduzione di sempre più frequenti alternative di reddito extra-agricolo, tenderà ad attuare ordinamenti produttivi che riducono l'impiego di lavoro; mentre il concedente tenderà a risparmiare capitale e ad utilizzare il lavoro fino al punto di produttività nulla» (Bartola, 1983b).
La negatività della mezzadria nel medio-lungo periodo dipende anche dal fatto che «mentre il coltivatore diretto, a parità di altre condizioni può recuperare spazi di produttività mediante l'accumulazione dei profitti e delle rendite, la mezzadria, attribuendo gran parte di questi al concedente e non stabilendo condizioni che ne rendano conveniente l'investimento nell'impresa, tende a favorire di fatto l'utilizzazione extra-agricola dei redditi di capitale e della rendita fondiaria » (Bartola, 1983b).
In mancanza di una riforma, la mezzadria è stata sostituita "spontaneamente" dalla conduzione con salariati nelle aree migliori (come la fascia costiera delle Marche), e dall'impresa contadina al di sopra della «linea a rendita nulla»: «la trasformazione della mezzadria in impresa con salariati in pianura conduce ad un aumento della produttività per addetto, ma ciò riduce quella ad ettaro proprio sulle aree migliori» (Bartola, 1983b). D'altro canto, la trasformazione della mezzadria in conduzione diretta, «che in linea generale potrebbe comportare un aumento di produzione, avvenendo nelle aree meno favorite e in condizioni di scarsità di capitale, non può esplicare tutti gli effetti positivi né sulla offerta complessiva, né sul mercato del lavoro agricolo. […] Lo sviluppo 'frenato' dell'impresa familiare, avvenuto tra l'altro al di fuori di un processo di integrazione orizzontale e verticale, ha quindi impedito l'aumento dell'offerta e contribuito a porre le premesse per l'aumento della domanda di integrazione dei redditi per attività svolte in altri settori» (Bartola, 1983b).
Il giudizio sui modelli di industrializzazione diffusa non può che essere positivo. L’integrazione fra settori produttivi «comunque la si voglia giudicare, costituisce una soluzione concreta ai problemi posti dallo sviluppo del Paese» (Bartola e altri, 1981).
Molti sono infatti gli aspetti positivi anche per l’agricoltura. In particolare:
E in effetti l’agricoltura mostra nel corso dello "sviluppo diffuso" una capacità di adattamento straordinaria «in aperto contrasto con il quadro storico cui solitamente si fa riferimento nel presentare il settore agricolo. La dinamicità tuttavia non appare un attributo positivo in sé; un giudizio sulle performance non può trascurare l'approfondimento delle cause che le hanno prodotte e delle variabili qualitative implicate nel processo» (Bartola, Sgroi, 1989).
La lista dei possibili effetti negativi di un tale sviluppo è in Bartola lucida e precisa. «La produzione agricola tende a porsi in una posizione anticiclica nei confronti di quella industriale e perciò a mutare profondamente le modalità con cui viene realizzata. Le operazioni colturali […] tendono a strutturarsi in modo tale da essere facilmente riconvertibili in funzione della domanda di lavoro esterna e a privilegiare impieghi di lavoro immediatamente produttivi. Ne consegue un abbreviamento dei cicli, una spinta alla liquidazione della zootecnia, un processo di meccanizzazione realizzato in modo che le unità lavorative possano rispondere con rapidità nei periodi di punta delle lavorazioni, o in alternativa, l'apertura delle aziende a tutte le operazioni meccaniche eseguite dai cosiddetti terzisti. In questo modo la produttività di medio-lungo termine dei terreni viene trascurata, le operazioni di sistemazione dei terreni, che costituivano nel passato l'elemento portante dell'equilibrio idrogeologico, vengono poste in second'ordine. Nel giro di pochi anni le terre si impoveriscono, le erosioni e gli smottamenti si moltiplicano e vaste aree di territorio rischiano la perdita definitiva imponendo elevatissimi investimenti di tamponamento. […] E' vero progresso tecnico quello che impone carichi di macchine elevatissimi e la loro utilizzazione al 20-30%? Che cosa accadrà poi al territorio agricolo quando sarà scomparsa l'attuale generazione di imprenditori depositari delle tecniche di utilizzazione della terra che ne hanno permesso la conservazione?» (Bartola e altri, 1981).
E in effetti, riferendosi al caso delle Marche, Sandro osserva come «le trasformazioni agricole siano state caratterizzate da una fortissima sostituzione di lavoro con macchine, una forte crescita della produttività del lavoro, ma ciononostante i livelli di redditività dell'agricoltura marchigiana sono inferiori a quelli delle altre regioni» (Bartola, 1985)
Dalla analisi fin qui riportata, Bartola conclude con un nuovo richiamo alla necessità di una politica economica ed agraria più attive e finalizzate, assumendo che il mercato sia incapace da solo di garantire equilibrio intersettoriale e prospettiva di lungo periodo. «Non si contesta pertanto il modello o gli effetti positivi che potrebbero essere prodotti sullo sviluppo agricolo, quanto la possibilità che sia il primo che i secondi diventino i frutti automatici maturati dietro la spinta delle decisioni decentrate motivate su interessi individuali. […] Il modello [dell’industrializzazione diffusa] è decisamente affascinante, ma può essere realizzato solo con una capacità di controllo e di guida dell'economia non certamente consueta. Il rischio che si corre abbandonandone la realizzazione alle libere forze del mercato non è tanto riconducibile alle fratture tipiche della 'distruzione-creazione' della concorrenza, quanto, almeno per l'agricoltura, a quella ben più grave della perdita di risorse irriproducibili» (Bartola, 1983c). D’altra parte - si chiede in un altro lavoro - «è ancora auspicabile che l'imprenditorialità si formi principalmente per mezzo della selezione naturale, particolarmente forte nei periodi di crisi, o non è invece conveniente sollecitare soluzioni diverse? Le forme associate costituiscono direzioni percorribili, ma è anche noto come [...] la strada da percorrere sia particolarmente lunga. Per il settore agricolo [...] non sono percorribili altre vie ed è proprio qui che si misurerà il successo della pianificazione...» (Bartola e altri, 1981).
L’esigenza della programmazione
Rileggendo all’indietro, fin dagli anni Sessanta, la sua decisa presa di posizione sulla necessità della programmazione (in questo atteggiamento è stata certamente decisiva l’intuizione di Orlando e la carica emotiva suscitata dalla sua personalità), non si può non riconoscere la lontananza, all’epoca in particolare, con i fatti. Bartola era chiaramente consapevole delle difficoltà soprattutto interposte dall’arretratezza istituzionale e dalla visione passiva della politica agraria in Italia. Ma ciò mette in evidenza, a mio avviso, il ruolo anticipatore delle sue posizioni.
In particolare interessante è ricordare le posizioni di Sandro sul rapporto stato-mercato e sulla complementarità dei rispettivi ruoli ai fini di uno sviluppo equilibrato nel quale tutti i settori (e quello agricolo in particolare) forniscano, per le risorse a disposizione, il proprio attivo contributo.
Bartola muove dal presupposto che «sono i meccanismi di distribuzione delle risorse e di accumulazione del capitale a non essere corrispondenti alle necessità di uno sviluppo equilibrato e a provocare ristrutturazioni produttive dispendiose. A ben vedere è proprio da questa naturale incapacità dei sistemi a decisioni decentrate che scaturisce la domanda di programmazione più urgente, ed è relativamente alla soluzione di questo tipo di problemi che va proposto un giudizio sulla rispondenza dei modelli di programmazione concretamente edificati dall'operatore pubblico. […] La programmazione in Italia ha [dunque] la funzione storica di ricomporre gli squilibri territoriali e sociali» (Bartola, Sgroi, 1984).
Una funzione è questa che, lungi dall’esaurirsi a seguito delle esperienze deludenti dei tentativi nazionali e locali di coordinamento e razionalizzazione dell’intervento pubblico in agricoltura, vede anzi accresciuta la sua rilevanza quanto più aumenta nel tempo la consapevolezza delle interrelazioni che l’agricoltura intesse con il resto dell’economia (innanzitutto nell’agro-alimentare) e poi nel più vasto rapporto con l’ambiente ed il territorio. Dice infatti Bartola: «siamo inoltre convinti che, di fronte alla crescita continua di complessità dei sistemi economici, ritenere il libero mercato in grado da solo di aggiustare tutto sia in pratica un'illusione.» (Bartola, 1983c).
«Oggi nell'agricoltura europea non è più in gioco la sicurezza degli approvvigionamenti o il livello dei redditi degli agricoltori, ma la stessa autonomia delle imprese. […] Ancora una volta ci si deve chiedere quale apparato istituzionale sarà capace di perseguire quell'obiettivo tanto rilevante; ancora una volta ci sembra improponibile il semplice riferimento al libero mercato e quindi indispensabile una consistente crescita delle capacità di governo dell'economia» (Bartola, 1989b).
L’esigenza della programmazione nasce dunque da questo riconoscimento della necessità dello Stato per far funzionare il mercato, pena la perdita di autonomia dei soggetti e dei settori più deboli, e dell’agricoltura tra questi. Essa origina anche dal riconoscimento della crescente complessità delle interrelazioni nelle quali è inserita l’agricoltura.
Quale programmazione
Il concetto di programmazione che Bartola assume a riferimento della razionalizzazione dell’azione dello Stato nell’economia è fortemente mutuato dalla lettura della letteratura in materia, riguardante le imprese industriali. Dalla teoria manageriale dell’impresa (Baumol, Hicks, Modigliani-Cohen) e dai lavori sul controllo di gestione nelle imprese (Anthony) ne derivano, mutatis mutandis, una serie di suggerimenti preziosi per il comportamento del policy maker. Dice in particolare in un passo: «se osserviamo il dibattito sulla programmazione in atto nelle imprese industriali, si possono cogliere alcuni spunti e alcuni suggerimenti che sono senz’altro validi anche in campo pubblico» (Bartola, 1986). Lo «scopo della pianificazione è l'individuazione della best possible first move» (Bartola, 1975). Al centro della razionalizzazione dell’azione amministrativa va posto il "controllo direzionale", mentre alla "pianificazione strategica" si assegna il compito di costituire un quadro di riferimento di lungo termine. Ciò significa alleggerire i piani, rifuggendo dalla impostazione degli anni delle prime esperienze in Italia, quando essi erano voluminosi studi (i cosiddetti "libri dei sogni") spesso poco attenti alla implementazione e alla realizzabilità dei propri suggerimenti (oltre che alla variabilità dell’ambiente esterno). Il suggerimento è quello di concentrare lo sforzo nella attività di monitoraggio continuo dello stato del sistema al fine di scegliere tempestivamente la «prima mossa» per poi procedere iterativamente con successive «correzioni di rotta» secondo un processo di «regolazione-attivazione» (Bartola, 1983a).
Non esiste una unica definizione di programmazione. Essa va adattata alle situazioni contingenti e alla complessità dei problemi da risolvere. Questo approccio viene ripetutamente sottolineato negli scritti di Bartola. Ad esempio, egli riconosce che «nelle aree difficili [...] le capacità ordinatrici del mercato si infrangono sulle esternalità e solo una visione zonale e spesso interzonale dei benefici e dei costi può permettere di valutare l'effettiva consistenza degli investimenti pubblici. Nelle aree dinamiche, invece, la funzione dell'intervento pubblico è più spostata sulle esigenze di razionalizzazione delle forze di mercato e sull'eliminazione degli ostacoli che si frappongono al suo efficiente funzionamento e all'esplicarsi di una concorrenza realmente leale tra le imprese» (Bartola, 1986).
Per affrontare queste differenti problematiche Sandro conierà rispettivamente i termini «programmazione-autogestione» e «programmazione-indirizzo» (Bartola ed altri, 1983). Naturalmente il primo comporta due ordini di difficoltà aggiuntive rispetto al secondo: «difficoltà operative perché[...] gli apparati politici e burocratici formatisi professionalmente e culturalmente sulla gestione delle incentivazioni finanziarie generalizzate sarebbero chiamati ad un mutamento profondo di mentalità; [e difficoltà politiche perché] le trasformazioni richieste si traducono in consistenti trasferimenti di 'potere concreto' tanto politico quanto amministrativo dal centro alla periferia ed in sensibili riduzioni degli attuali margini di discrezionalità nelle applicazioni delle disposizioni amministrative e legislative» (Bartola, 1982).
Contenuti dei piani
Qualunque sia il modello di programmazione adottato, comuni sono alcune condizioni necessarie per la buona riuscita dell’azione pubblica. «La gestione della programmazione [indipendentemente dall'approccio specifico] richiederà pur sempre l'analisi dell'ambiente entro cui dovranno essere realizzati gli interventi, la scelta degli obiettivi e dei progetti, l'indirizzo verso i medesimi progetti di adeguati flussi finanziari, il controllo tecnico-economico degli effetti prodotti ed il recupero a tutti i livelli del calcolo economico» (Bartola, 1983a).
Con particolare riferimento ai piani zonali agricoli (che costituiscono una risorsa necessaria alla realizzazione dei piani di sviluppo dell’impresa), questi devono: 1) prevedere «la modernizzazione della struttura dei servizi, in particolare di conservazione e di prima trasformazione e [distribuzione]; modernizzazione che, solo se attuata contemporaneamente agli stessi piani, potrà evitare la perdita di valore tipica delle dimensioni commerciali troppo limitate» (Bartola, 1975); 2) attuare il coordinamento delle produzioni non solo a livello zonale, ma anche e soprattutto a livello regionale e nazionale; 3) «predisporre il quadro entro il quale le previsioni diventano meno incerte, fornire alle imprese stesse punti di movimento più precisi, fornire anche gli elementi necessari a far uscire le imprese da situazioni di inefficienza, predisponendo con esse i corsi di azioni più coerenti con il comportamento effettivo dell'ambiente» (Bartola, 1975); 4) «modificare [infine] l'offerta dei beni e servizi a domanda collettiva su tutta l'area agricola interessata al piano, per portarla agli stessi livelli e standard di servizi civili dell'area urbana» (Bartola, 1975).
Base fondante della programmazione a tutti i livelli, sia di impresa, che zonale, regionale o nazionale è in Bartola una informazione adeguata. «Un sistema decisionale adeguatamente sostenuto da idonee basi informative è il primo presupposto per il buon funzionamento di una qualunque macchina organizzativa. Ciò a maggior ragione quando si tratta della macchina pubblica» (Bartola, 1987b).
«La mancanza di conoscenze porta inevitabilmente all'allungamento dei periodi di attesa, a scelte generiche, miopi, spesso contraddittorie e quindi dannose. Una decisione di politica economica presa al di fuori di un sistema informativo adeguato rischia non solo di essere inefficace, ma di peggiorare il male che intende curare. Il nostro futuro sarà sempre più caratterizzato da un considerevole aumento nella complessità di funzionamento di tutti i sistemi (dall'impresa all'economia nel suo insieme). L'aumento di complessità porterà con sé un aumento di incertezza: l'errore decisionale sarà sempre più probabile» (Bartola, 1987b).
Su questo piano Bartola è anche più preciso: «Il modello decisionale razionale dovrebbe essere […] dominato da tre elementi: multidimensionalità del sistema valutativo, sequenzialità ed incertezza» (Bartola, 1975): la multidimensionalità fa riferimento alla molteplicità degli obiettivi dell'impresa o dello Stato; la sequenzialità alla rilevanza dei sentieri di sviluppo (l’analisi statica si occupa solo dei successivi equilibri) e quindi alla interdipendenza delle decisioni nel corso del tempo («le decisioni presenti possono influenzare le future [...] e quindi le prime dipendono in maniera sostanziale anche dalle seconde» (Bartola, 1975), ma è l'incertezza che determina decisamente i comportamenti: l'incertezza introduce il rischio (e le propensioni al rischio possono essere molto differenti), essa si connette al dinamismo della gestione (con il tempo si acquisiscono nuove informazioni).
D’altra parte, poiché l’informazione costa, l’azione programmatoria deve sempre ispirarsi al concetto di ‘rilevanza’: le variabili da prendere in considerazione debbono essere limitate allo stretto necessario (c'è anche un orizzonte temporale rilevante). Ma non c’è solo un problema di quante informazioni raccogliere. C’è anche il problema della loro qualità in rapporto alle risorse impiegate per ottenerle; e questo rinvia al collegamento tra programmi privati e programmi pubblici. Lo dimostra il caso delle contabilità agrarie: «quanto è successo nel nostro paese con la contabilità agricola dovrebbe costituire un severo monito: qualora il riferimento centrale di questo tipo di innovazioni non è costituito dalle necessità dell'impresa e calibrato sulle necessità gestionali dell'imprenditore, anche i più validi strumenti sono votati all'insuccesso» (Bartola, 1989a). «Se la contabilità non viene proposta e vissuta in funzione gestionale, tutto l'apparato che gira intorno ad essa non serve a nulla se non a sprecare risorse finanziarie e energie umane: non serve agli agricoltori, non serve ai ricercatori, non serve agli Istituti i cui compiti sono appunto la produzione di statistiche né ai policy maker» (Bartola, 1990).
La deludente esperienza della programmazione in Italia
Bartola avverte molto lucidamente che l’impegno per l’avvio della programmazione nell’agricoltura italiana costituisce una sfida molto complessa. Egli intuisce che «l'ostacolo più rilevante che si frappone alla realizzazione di una svolta decisiva nel metodo di gestione dell'operatore pubblico è costituito dall'attuale assetto organizzativo ed istituzionale [per cui] il processo di adeguamento non sarà indolore e, siccome dovrà avvenire in tempi non lunghissimi, potrà essere affrontato solo da una classe dirigente (politica ed amministrativa) che, oltre a credere profondamente nel valore gestionale e politico della programmazione, possegga le necessarie capacità manageriali» (Bartola, 1986).
Invece, lungi dal farsi carico di questo compito certamente gravoso quanto necessario, gli operatori pubblici hanno generalmente «privilegiato gli aspetti politici trascurando quasi completamente le trasformazioni istituzionali che la realizzazione concreta dell'intervento programmato avrebbe richiesto» (Bartola, 1983a).
Di conseguenza, «nel settore pubblico italiano 'programmazione' è stata […] sinonimo di 'preparazione di documenti', da presentare prima alle forze sociali per il dibattito e l'accettazione e poi agli enti di governo di grado superiore per l'approvazione, il tutto con minime garanzie circa la 'realizzazione' » (Bartola, 1983a). Richiamandosi ad un precedente giudizio di Barbero, Bartola osserva che «si sono chiamati 'piani' somme più o meno eterogenee di sussidi e provvidenze senza fini precisi che non fossero generici miglioramenti fondiari, dotazioni di macchine ed impianti di trasformazione spesso senza una vera base associativa e che quasi mai impegnano le imprese all'aumento della propria vitalità economica e delle propria autonomia» (Bartola, 1976)
«In sintesi si può affermare - conclude - che, al di là delle dichiarazioni scritte nei vari documenti e leggi, l'operatore pubblico si sia sempre raccordato alle imprese con un'ottica aziendalistica e molto spesso assistenziale. La visione di insieme dei problemi è completamente mancata come sono state trascurate le interazioni tra agricoltura ed altri settori di attività» (Bartola, 1983b). Cosicché, scrive nel 1983, ma il giudizio è ancora attuale, «nella gran parte del Paese (ed in particolare in tutto il Meridione) l'operatore pubblico, a 40 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e a 15 anni dalla formazione delle Regioni a statuto ordinario, può oggi solo accompagnare la libera iniziativa dei privati senza essere in grado di orientarla verso qualsiasi traiettoria di sviluppo originale» (Bartola, 1983a).
Ciò dipende anche dalla scarsa distinzione dei ruoli pubblici da quelli privati originata da un atteggiamento corporativo dal quale le forze politiche e quelle sindacali non sembrano capaci di distaccarsi: «funzioni tipicamente 'private' vengono nei fatti governate dall'operatore pubblico, d'altro canto, funzioni tipicamente pubbliche (assistenza tecnica, sperimentazione, istruzione professionale) vengono spesso delegate alle organizzazioni di categoria e quindi teoricamente controllate dalle imprese. Da questo scambio di ruoli [...] l'impresa non può trarre il beneficio e lo stimolo necessari per inserirsi vitalmente nel tessuto economico del Paese» (Bartola e altri, 1981). Una dimostrazione della verità di questo giudizio, Bartola la trova analizzando il trattamento fiscale degli agricoltori: «le organizzazioni di categoria in cui prevalgono i piccoli e medi agricoltori dovrebbero avere il coraggio di imporre il disaccoppiamento della politica fiscale da quella dei redditi, che favorisce nettamente le grandi imprese forse in misura altrettanto grande dei prezzi. […] In Italia la terra è considerata bene rifugio anche per questo speciale trattamento fiscale. Non sfuggono le tonificanti conseguenze dell'eliminazione di tale privilegio sia sulla mobilità fondiaria che sulla struttura dei tassi di interesse» (Bartola, 1991).
Considerazioni conclusive
Bartola amava correggere sistematicamente tutti i lavori (tesi di laurea, bozze di articoli, ecc.) che intitolassero l’ultimo paragrafo: "Conclusioni", con l’espressione più sfumata e meno forte: "Considerazioni conclusive". Sosteneva infatti che in economia non si sia mai autorizzati a "concludere", ma solo ad offrire al lettore nuovi spunti per una riflessione sempre aperta ad ulteriori contributi. Questa piccola questione di principio credo valga in modo particolare in questo caso.
Il lettore mi consenta qualche piccolo riferimento personale. Ho lavorato con Sandro per circa venticinque anni, partecipando alla maggior parte delle ricerche da lui svolte ad Ancona. Eppure oggi, dopo la scomparsa, mi pare ancora di non conoscere a sufficienza il suo contributo scientifico. Tanto che, rileggendo all’indietro la sua lezione mi è sembrato di scoprire una attualità che avrei creduto di non trovare. Nel momento in cui nel mondo viene assegnato sempre maggiore spazio al mercato anche per i prodotti agricoli, in Europa ci si orienta verso una nuova Pac nella quale la generica garanzia tende ad essere sostituita da politiche mirate ad obiettivi precisi (di trasformazione strutturale, di tutela e valorizzazione ambientale, ecc.). Mentre succede tutto questo e crescono i rapporti di integrazione e conseguentemente la complessità richiedendo una de-settorializzazione ed una regionalizzazione dell’intervento verso l’agricoltura, la riflessione di Bartola offre una notevole quantità di spunti. Anche perché essa andrebbe ampliata anche ai temi, qui trascurati, della applicazione dei metodi di analisi quantitativa alla soluzione dei problemi economici per i quali era veramente un maestro.
Si aprirà quella stagione della programmazione e del rilancio del ruolo dello Stato a garanzia dell’equilibrio (fra settori e fra regioni) e della libertà di mercato, che è al centro della ricerca di Bartola? La risposta a questa domanda dipende ancora, per quello che ci riguarda come ricercatori, dalla capacità di raccogliere quell’insegnamento e di continuare a fargli produrre frutti.
Bibliografia