immagini della terra
antologia di poeti marchigiani
a cura di ostelio recanatini
prefazione di alessandra catalani
Presentazione
di franco
sotte
Questa raccolta di poesie è il frutto di una grande passione. Ne sono testimone. Quando, nell’autunno dell’anno scorso, a nome dell’Associazione "Alessandro Bartola" ho chiesto al prof. Recanatini di pensare al progetto di una raccolta di testi di poeti marchigiani intitolata "Immagini della terra" non solo Ostelio ha risposto, come suo solito, con grande generosità e disponibilità, ma si è tuffato in quell’impegno. Pochi giorni dopo la raccolta era pronta ed era accompagnata da una serie di appunti che ci illustrò in una breve ma intensa riunione. Poi, improvvisamente, Ostelio si è gravemente ammalato. Ciononostante, ha continuato fino all’ultimo a riflettere sul tema e a dettare gli appunti per la premessa curata, in sua vece, da Sissi Catalani.
Mi sono chiesto spesso quali motivazioni profonde lo spingessero a quell’impegno via via più grave. Certo l’amicizia. Commentandone i testi, pareva rivivesse i suoi incontri fraterni con Franco Scataglini e con altri poeti di questa raccolta.
Attraverso le poesie poi si costruiva una idea originale delle Marche: una regione con un enorme patrimonio di cultura innestato nella sua dimensione rurale. Se non potevano esserci nostalgie per un passato di fatica e dolore, di cui pure quel patrimonio era frutto, era necessario comunque ritrovare quelle radici, farle ancora germogliare.
Di questo argomento, ricordo che Ostelio Recanatini e Sandro Bartola discussero in una bella sera d’agosto del 1993 in agriturismo, quell’unica volta in cui si incontrarono. L’economista analizzava i successi del sistema economico marchigiano nel dopoguerra, ma esprimeva anche le sue preoccupazioni per i limiti e le debolezze di un modello di sviluppo che rischiava di volatilizzare le basi culturali e sociali da cui pure traeva le sue origini e la sua specificità. Il filosofo ricordava le tante metafore associate alla terra e pescava nella memoria, come sapeva fare magistralmente, richiami alla letteratura e alla storia; e così spiegava allo stesso tempo la ricchezza e la profondità di quella cultura rurale delle Marche che aveva espresso così tanti poeti. A quel dialogo bruscamente interrotto, Bartola scomparve improvvisamente il mese successivo, Ostelio voleva continuare a dare il proprio contributo.
La pubblicazione di questo testo è anche quindi la testimonianza di un incontro e di un impegno perché altri continuino quel dialogo.
prefazione di alessandra catalani
La lingua greca conserva con particolare pregnanza la parentela strettissima tra il coltivare ed il poetare: con il verbo poieo - che significa "fare" in quasi tutte le accezioni che questa parola oggi ha in italiano, e dunque anche coltivare e fare poesia - e con il sostantivo poietes, colui che fa e poi, immediatamente, il poeta e il cantore. Del resto, nessuno è più vicino alla terra del poeta poiché la terra è la fonte delle sue metafore, è l’esempio di quell’impegno di formatività che è tipico del poiein: per questo i Greci dicevano che la terra è il poema più perfetto, perché è il poema di Dio e chiamavano poietes il lavoratore della terra e poiein il lavoro dei campi riconoscendo che l’attività di un contadino non si esaurisce mai in una zucca, ma nella coltivazione che è sempre nuova e da adeguare alle stagioni alle opportunità e ai bisogni. E che in tanto il coltivare è attività formativa per eccellenza in quanto avviene in esso la quotidiana concreta epifania per cui le strutture e le organizzazioni che si vorrebbero imporre alla terra si rivelano da essa stessa, ad un medesimo tempo, suggerite e ricevute.
Nelle nostre Marche la scoperta della territorialità e poi anche della esemplarità della poesia si mostra con evidenza in Franco Scataglini, il cui itinerario esistenziale e poetico può a buon diritto leggersi come una aratura assidua delle cose e dei significati capace, da un luogo circoscritto e definito, di parlare con estensione universale. Qui tenteremo di dire ciò alla luce di un ancoraggio filosofico, facendo i conti con una concezione della intuizione che va da Aristotele a Humboldt fino a conciliare Humboldt stesso, discepolo, a Kant maestro.
E’ un discorso sulla poesia e sulla terra, dunque, quello che si vuole tessere, quel particolare discorso che Ostelio Recanatini pensava come prefazione a questa antologia, lasciandosi condurre nella poesia marchigiana lui, filosofo, dai maestri filosofi e insieme dall’amico Scataglini.
Si tratta di partire da Aristotele che, pensando a una funzione della lingua che è costante e che configura una ipotesi energetica, fornisce ad Humboldt le categorie fondamentali per sviluppare, in un rapporto stretto di filiazione intellettuale, la sua rinnovata concezione del linguaggio. Pertinenti a questo proposito risultano i concetti aristotelici di energheia e di entelecheia, entrambi definiti in relazione al processo con cui ogni ente raggiunge la sua natura specifica: in tale movimento verso l’identità più vera, l’energheia è una fase realizzativa, l’attuazione di una possibilità, seppur non definitiva, e l’entelecheia, invece, è il punto d’arrivo, ovvero la meta in cui e per cui la realizzazione di qualcosa può dirsi fatta, essendo la sua forma interna definitivamente compiuta. Dall’opposizione dei concetti dinamici richiamati con quello statico di ergon – che designa un’opera finita e utilizzabile quindi come strumento – Humboldt esclude che la lingua sia un ergon e che possa considerarsi un oggetto chiuso e definito nella sua datità, come una casa costruita una volta per tutte e non più costruibile. Al contrario, essa è viva e, come un organismo, pulsa alla ricerca di possibilità sempre nuove di attuazione e di realizzazione in un’opera inesauribile di formatività che si concretizza in molteplici, successive fasi energetiche. Queste fasi sono le parole, i discorsi individuali e particolari nei quali il processo con cui si tende a dare una forma al mondo si acquieta in stati non definitivi ma attuali e concreti: energheiai appunto, come in agricoltura sono le vigne, i campi lavorati a grano, i curati frutteti. E’ evidente, allora, che in modo intero, perfetto ed esemplare il processo descritto di formatività, per il quale è ipotizzabile un’incompletezza del fine, si compie nella lingua e nell’intuizione poetiche, volendo essere la poesia una coltivazione attentissima e tenace dei sensi del mondo, un’analisi alta in virtù di una parola mai utilizzata né mai pensata come fosse una zucca.
Che Franco Scataglini tenda a questo non c’è alcun dubbio, tanto è vero che lascia incompleta la lingua, quindi priva di uno scopo raggiunto, e parifica il lavoro del poeta a uno sforzo di santità, cosicché è certo che cercasse un’intuizione intellettuale, cioè un’approssimazione alla verità divina. Così egli afferma anche esplicitamente:
" la mia speranza è stata ed è di poter dire una parola pulita e sana, sopportata da Dio e utile a qualche uomo".
E ancora:
" il poeta per me non si limita ad essere il custode della parola o l’igienista della parola. Per me il poeta - quando tale nell’opera s’è dimostrato – viene subito dopo il santo e non riesco a dissociare la vocazione poetica (…) dalla vocazione ad un mistico possesso della verità".
Quello che poi risulta dalla sua poesia sono anche delle intuizioni empiriche, le immagini, le ragioni, le suggestioni e tutto quello cioè che non rientra nella formatività poetica assoluta. Ad esempio, "el pezetì de porto" intravisto da casa e consegnato, minimo, alla pagina è un’immagine empirica così come la formazione degli uccelli sui fili:
I passeri ritorna
sui fili a fa spartito.
La punta de la biro
vuria fali sonare.
Del resto, e per conservazione e selezione dei dati rilevanti il disegno si compie, Scataglini cercava nella tradizione italiana una poesia autenticamente popolare e contemporaneamente giungeva ad affermare il rapporto di somiglianza imperfetta tra scrittura e vita, che "ene compagni", diceva, dunque ancorati sì l’uno all’altra, ma in un rapporto di approssimazione e non di identità. Tra incompletezza linguistica, riferimenti percettivi particolari a radicamento popolare da una parte e sforzo intellettuale prossimo alla santità dall’altra, si staglia come cifra significativa della ricerca un movimento dal particolare all’universale che è il contributo di questo poeta all’idea di territorialità della poesia, il suo modo inconfondibile per riconoscere come autentico ed inevitabile l’appartarsi, di Kant a Königsberg ad esempio, in un angolo della terra e il rimanere lì per considerare ogni cosa. E’ l’intuizione estetica kantiana a mettere in pari le culture e ad ancorare la poesia a un linguaggio unico, incompleto, dinamico, energetico, come Humboldt voleva: vediamo prima gli uccellini sui fili dal frammento di spazio che corruttibili abitiamo e li diciamo nella lingua – scrittura che sono carne della nostra più individuale carne per avviare, poi, quella dinamica formativa che ci porta kantianamente a costruire il mondo, a dargli un senso, a far universali quegli animaletti da minimi che erano sembrati. Prima Humboldt poi Kant dunque, in un orientamento conciliato, perché non è possibile pensare solo a un’intuizione sensibile sebbene per l’uomo sia questa la premessa necessaria della ricerca che lascia intatto il bisogno di un’intuizione intellettuale.
Dire poeti marchigiani significa allora dire l’invenzione per cui si attinge la verità a partire da un luogo parziale, non per la via della levitazione ma mediante immersione nella dimensione terrestre particolare. E’ un rapporto con la terra molto più forte che se fosse solo di natura tematica: piuttosto, la terra è l’esempio per la nostra poesia, che si fa essa stessa coltivazione, sforzo inconcluso di dare forma al mondo. Come il lavoro dei
campi, anche il poetare conosce alcuni approdi ma più spesso fa i conti con l’acerbità o con la nostalgia di una maturazione definitivamente allietante:
(Dal pero
maturi d’alto autuno
i testicoli pende
c’a lascià gerbo alcuno
fruto mai no s’arende
l’orto.
De compimento
se veste la letizia
naturale.)
Finalmente e con evidenza si comprende che cosa intende dire Franco Scataglini quando afferma che una vita non basta per una passione. Caricando di senso quanto già esprimeva Volponi nel dirsi passionale, la proposizione per cui "non c’è mai abbastanza vita né abbastanza morte" è una confessione della consapevolezza di essere ostaggio. Il poeta è oppresso dalla formatività incompleta della lingua e questa lo sequestra fino a portarlo a morire: è un’attività categoriale, di funzione, cioè organica, quella con cui egli si prova, con la lingua che gli si manifesta appunto come servizio inesauribile e gli chiede la tensione del faccia a faccia con un’orientata inesauribilità.
In tal modo, nella scelta di fiori qui compiuta, il lettore, quando lo voglia, potrà andare a cercare una testimonianza marchigiana: che la vita, per la misura data e nella complessa e biunivoca dinamica del fare frutti e raccoglierli, è insieme insufficiente e necessaria a lavorare se stessi, le cose tutte e il senso come fossero orti o ereditati, amati giardini.
Questa prefazione, lo abbiamo già
accennato, non è di chi la firma. Dettata nelle sue linee fondamentali in un
angolo appartato e minimo della terra, si misura col fatto universale della vita
dei contadini, dei poeti, dei filosofi e insomma di tutti quelli che sono presi
dalla passione di coltivare il mondo e lo coltivano perché abbia una forma
migliore e meglio vi si possa abitare. Le parole e i pensieri che in essa
riescono ad alludere all’orizzonte di verità ove immaturità e compimento si
fronteggiano sono di Ostelio Recanatini. Sulla poesia come impegno formativo
necessario e necessariamente incompleto egli rifletteva nell’estrema sua energheia
di cui siamo stati testimoni, ultimo atto di formatività di tanti che abbiamo
avuto la fortuna di riconoscere e condividere, preludio dell’entelecheia
di sé, del compimento ora con naturalezza ad un tempo raggiunto e ricevuto.
i poeti marchigiani
libero
bigiaretti
(matelica)
campagna
marchigiana
umberto
marvardi
(senigallia)
alba marina
franco
albonetti
(agugliano)
paese
luigi
bartolini
(cupramontana)
l'antico addio;
l'ora del sacramento;
i maggiolini.
marcello
camillucci
(senigallia)
gli amici e il paese
scipione
(macerata)
alla calata del sole una
pecora;
andavo ad appostarmi;
solstizio.
anna
malfaiera
(fabriano)
di sera alla rondine
franco
scataglini
(ancona)
m'hai lasciato un giardì;
pels morts;
podere
barcaglione;
cascina
pieri;
(rovo e mirto);
el sol.
franco
matacotta
(fermo)
e' perché vedo le rinate
gemme;
un'epoca ho vissuto.
paolo
volponi
(urbino)
casa di
monlione;
serenata;
d'autunno è con noi;
la cometa;
porgimi amore;
l'appennino contadino;
tu sei l'uomo.
antologie di riferimento:
carlo antognini, poeti marchigiani del 900, bucciarelli editore, ancona, 1965
guido garufi (a cura), Lla Poesia delle Marche. Il Novecento, Fondazione Cassa Di Risparmio della provincia di macerata, il Lavoro Editoriale, ancona, 1998
franco scataglini, rimario agontano, libri scheiwiller, milano, 1987
franco scataglini, El Sol, arnoldo mondadori editore, milano, 1995
Libero bigiaretti
Più da te m'allontano e ai tuoi orizzonti
di libertà più non respiro, data
ormai la mia vita ai brevi spazi,
più non fa nido nel cuore il tuo ricordo
campagna marchigiana...
Ancora vi dipingo nei miei occhi
belle luci di cieli serenati
di massiccio turchino ondosi monti,
seminati distesi nel tranquillo
ordine del disegno. La tua voce,
pace della mia terra, lungamente
in me dura se ancora mi rammento
amoroso richiamo della tortora
tra i quercioli del poggio; nel lunare
silenzio, amico abbaiare del cane:
calmi muggiti dalle greppie, stridulo
gemere della secchia al fresco pozzo.Mai la città mi renderà straniero
al mio paese, ai queti campi dove
alla lenta parola onde il cortese
villano mi proverbia il mio linguaggio
rinasce alla cadenza ch'è fedele
al labbro di mio padre; ove riscopro
dimenticati, i miei vivi, i miei morti.
umberto marvardi
Secco è l'Esino e ormai la rondinella
non rade che la gora imputridita
nella sassaia, all'alba.Il mare sciacqua lento sulla ghiaia
l'azzurro immoto tra la luce e il verde
dei canneti
e ritma sullo spento
sussulto della notte
il silenzio che ancora un altro giorno
scialba di rosa.Lontano, una paranza all'orizzonte
quasi si perde.
franco albonetti
Torna al paesaggio di sabbia e di vigne
itinerario di borgate sparse
e d'un magro paese addormentato
tutto intriso di spazio e solitudine.
luigi bartolini
Tanti saluti,
terra marchigiana:
quella che mi piaceva
era una fonte di campagna,
il fiume Chienti era,
era il Potenza;
tempo, ormai, per me, di penitenza!
Non più aggirarmi per le Abbadie
come un monaco disperso;
non più salire ai vecchi castelli,
e mirar sotto i colli nanerelli;
non più, sul Chienti, molini ad acqua
e il contadino per l'erta strada;
non più lanciargli, per spasso,
colpendo l'asino un sasso...
Non più le ragazze scalze
che fanno l'erba del fosso;
non più: e al fiorente petto
un tulipano rosso.
luigi bartolini
Ebbi anch'io l'ora del sacramento e fu quando
esausto, rotte le reni, mi alzavo dal mio lavoro;
dal celeste lavoro, dal mio umile sgabello.
Ebbi anch'io l'ora in cui, soddisfatto, uno tace.
L'anima e` in equilibrio fra le luci e le ombre
mentre il sole tramonta sopra la traccia dei solchi.
luigi bartolini
Tutti odiano i maggiolini;
in ispecie, i contadini;
Con gli zaini di verderame,
scarpe sudice di letame;
Quando, a sera, verso il sole
ultimo, tessono brevi voli,
Ronzano, ai fiori, i maggiolini,
allora ecco che, contadini,
Con zaini azzurri di verderame
e canne lunghe fino alle rame,
Ammazzan cento, che stavan chini,
(maschi e femmine) di maggiolini.
marcello camillucci
scipionePer noi amici attorno alla tavola
il vino e` il sangue comune.
Si parla solo per la gioia delle voci
che vengono e vanno, echi di campane
fraterne di paesi ove siamo vissuti
e torniamo ogni volta che si parla.
Ci sono anche i morti, più giovani,
oltre le lampade, a spiarci assorti
e le ragazze che amammo, verdi
come l'erba nella quale dormiamo
ogni primavera, azzurre come gli angeli
a capo del letto.
Le sere d'estate,
le lucciole palpitanti, i canti assonnati
ci chiamano dal fondo degli anni nebbiosi.
Ad uno ad uno ce ne andremo e l'ultimo
porterà nella polvere il ricordo
della terra e del mare che mai
ci hanno abbandonato.
scipionealla calata del sole una pecora
Alla calata del sole una pecora
ha fatto un agnello.
E` uscito tutto di lana, col sangue
il cuore la voce.
Gli uomini sbucano fuori
e se ne vanno via,
i cani silenziosi se ne vanno via,
gli alberi aspettano il buio
per ignorarsi,
le erbe odorose si mettono
in cammino.
Le civette gridano, tutto si muove
e l'angoscia riempie l'aria
di inquietudine.
scipioneAndavo ad appostarmi sulla strada della montagna
m'arrampicavo pei boschi pieno di trepidazione
e mi rannicchiavo ricolmo d'ansietà ad aspettare.
Sentivo i gridi dei paoni.
Una notte il pensiero della via mi prese.
Salii salii - e gli alberi e i sassi
uscivan dal buio
quando fui in agguato.
La via bianca era come una benda
sui miei occhi.
Udii un rumore di verde vicino:
apparve un cavallo nero
guardò intorno e scese lentamente
immergendosi nel bianco
poi nitrì
e il suo grido scese come un brivido sulla montagna.
Stette immobile a subirne l'eco
e fuggì via.
scipioneLa terra è secca, ha sete
e si spacca.
Sui labbri dei crepacci
le lucertole arroventate
corrono in fiamme.
Le stelle cadono accese
per bruciare il mondo,
ma nessuno tende le mani per abbracciarle
e si smorzano, tuffandosi nel buio.
La carne cerca nelle carni
le sorgenti
e trova gli occhi
che si schiudono come fiori.
E la sonagliera dei grilli,
la notte,
ci porta incontro al sole
che ci trafiggerà
con le sue mille frecce.
Aspetto che finisca
e nell'attesa
mi sento abbacinato
come un foglio bianco
su cui picchi il sole.
La terra è secca, ha sete
e a notte è nera e perversa.
Cristo, dalle da bere,
ché vuol peccare
e farsi perdonare.
scipioneMise le mani per terra ed era simile
ad una bestia.
La terra ha tutti nascondigli,
gli scarabei ronzano nell'aria.
La testa alla radice dei capelli brucia,
le spalle si aprono, le viscere si commuovono.
Non ci sono voci:
la terra s’alza, il ventre suona vuoto,
i seni si allungano, precipitano verso terra,
le dita ritorte dei piedi,
i ginocchi, le dita delle mani toccano la terra.
Il sole si è fermato
lungo le reni. Corre un vento pieno di polline.
Io sono la voce dell'albero che cade,
la mia corteccia sarà accarezzata
quando si vedrà che dentro sono bianco.
Le mie radici sono d'avorio e sono
nascoste - la terra fine le ricopre.
Il mio corpo e` rotondo
l'aria sola mi toccava.
Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami,
i loro occhi vedevano tutte le mie braccia,
le foglie li nascondevano.
Sotto di me l'uomo si è riposato.
Io sono la voce del fanciullo,
le mie ossa sono tenere e possono cadere
e non si romperanno.
Le mie gambe corrono, i miei piedi
non lasciano impronta.
Il timbro della mia voce somiglia
alla campana del mattino,
al bronzo leggero.
anna malfaiera
Di sera alla rondine s'uguaglia la stagione.
Giunge voce dai campi, dalle case,
dagli alberi fioriti. L'azzurro si distrae.
Questa sera amorosa mi cresce
fragile di suoni sorti improvvisi,
di tenere occasioni, prima che l'ombra
prenda l'andatura nella notte opaca.
Come potrà mutare in amore il mio deserto
che rende saldo il corpo e preme e denso
e vigila ogni cadenza addolcita?
Insidia si farà nei gridi degli uccelli,
tenebrosa, a passo lento
a quattro zampe di bestia.
Seme che fiori d'inganno, grido ed ombra.Il paese è sazio di mosto
e i suoni ha dolci d'un autunno timoroso.
Si prepara uno sfondo di tristezza
ora che i rami tutti perdono le foglie
e restano gli ulivi in contrasto col tempo
nella candida attesa.
In casa si sta col proprio cuore,
col grano, col vino, attorno al focolare
a commentare le storie sempre nuove.
Così mi trova il vento
e non mi strappa neanche una parola,
ché tutte sono arse
alla fiamma della bella stagione.
Io non ho più parole e non ascolto
ora che il vento filtra e gode
di rotolarle morte per la via.
Il fuoco odora di resina di pino.
Nebbia è la memoria se vi filtra la luna,
il cuore si tramuta: sembra un uccello
privo, a sera, del nido nei pagliai.
Un passo che conosco ha l'inverno,
tardi chiarori e brume agli Appennini
e pungoli di gelo.
Cade l'erba muraglia nel cortile
dove il cielo non tinge.
Lasciata la mia casa mi sentirò nel vento.
franco scataglini
C'è chi lascia un poema
e chi non lascia niente
perché esse muto è 'l tema
de' vive, in tanta gente.Però te m'hai inganato,
vechio, e pe' non morì
muto com'eri stato,
m'hai lasciato un giardì.
franco scataglini
Cigale sbrigiolite
d'ulivi magri e cupi.
Le foie de la vite
se svenane sui zupi.Un fogo de sarmenti
imbroia la nebia e 'l fumo.
Pei morti ai quattro venti
'st'asenza de perfumo
franco scataglini
franco scatagliniTuto el piove è fenito,
la luce s'arfà iorna.
I passeri ritorna
sui fili a fa spartito.La punta de la biro
vuria fali sonare.
I nuvoli da tiro
scavala verso el mare.
Sanguina i fantacini
de le vigne in quadrato.
(Con le roncole ai spini
tuto pare sia stato)
...
ai ossi, sot'al sterno,
el core più se strigne -
(fuge la lepre, ansiosa,
per le intrigate vigne)
franco scataglini
La selva del rovo
al sole de marzo
è fusa da 'n spiovo
de lute de quarzo
(el suo pensamento
verdagnolo e irto
l'ecelso momento
riacorda col mirto)
franco scataglini
da "el sol"
La prolissa tremìa
d'anuncio su apancata
gente d'atrio. Apartata,
qualche fisionomia
de vita remissiva
'nt'i panni ripuliti,
cuntadini cuntriti
con donne d'ombra schiva
nel cantò de l'atesa
(fori el biroccio a pupi
pinti a le bande, cupi
de alegria vilipesa).Accelerati, soste
durate manco un sì
e subito el partì
prese pure deposte
rare figure scure
(de la` dal laterizio
del stecato, el solstizio
de le pesche mature).
franco scataglini
da "el sol"
Trebiatrici per aie,
da longo, colonìe,
barconi in mezo a scie
de svolazate paie
Se sentiva el vallato
(el bruì compresente
dietro ai olmi fugente)
che sortiva purgato
da le griglie de ghisa
del Sol (nere oficine
tumultuanti turbine).
Solinga, incondivisa,
c'era una grande villa
(de sopra ai brugni bianchi
se butavane a branchi
i ronduli). La lilla,
sul brecì dei paoni,
eterna ecelsa imota
esibiva la rota
dei mondi 'ntra i lamponi.
franco scataglini
da "el sol"
'L vechissimo cipresso
pieno d'ucelli e pigne
porporinate, fesso
el tronco de rughigne
bigiofumo, de lato
al ponticello rosso
(ormai mezo interrato
el corso d'acqua: un fosso),
parea con le sue cove
el messo in livrea verde
d'un reame d'altrove
che se dilunga e sperde.El truvavo ogni anno
come un ramingo el padre
soto al sudato panno
de nuvolaglie ladre
de sole. E via sonando
la coriera sterzava
verso el biancore blando
de l'Esino - la grava.
franco scataglini
da "el sol"
La via de la Gabella,
dal dorso bianco antigo,
atraversava snella
i campi come un rigo
sopra al verde. Stacati,
tut'intorno, paesi
(come se acoccolati
piccioni al nido apresi)
in cima ai poggi a vigna
e le chiese più in alto
culor d'oro che scrigna.
Un silenzioso assalto
de nuvole e fantasmi
rispechiava e deserti
soto una volta a chiasmi
de cieli chiusi e operti
con el vocià dei cani,
irosi, recidivi,
'ntra i spari dei pantani
e i galletti tardivi.
franco scataglini
da "el sol"
El sempre sorprendente
udore delle piante:
la quercia prepotente
con le sue foci spante
pel bigio oceanino
del cielo; umido udore
de muffe e de mattino
- el blando delatore
del novo che risorge
con la ruvida gemma
sortita da le forge
del gelo e del salgemma.El tempo non se chiude:
s'appaesa pei clivi
morbido su le mude
del grano, gerbe, vivide
quando el sole le sfiora
come una mano bianca
(c'è un trattore che esplora,
c'è una benna che sbanca).
franco matacotta
Un'epoca ho vissuto
in cui il sangue era chiazza di ciliegie
e i cadaveri stavano ammucchiati
come fascine secche
e gli alberi di campo
sopra impiccati capi si chinavano
e sotto l'acre vento di gennaio
intorbidata la mia patria stava
come uno spaventato formicaio.
Di questo stesso mese
il giorno venti giugno
fu libero il paese.
E i bambini e le donne
dai capovolti campi ritornavano
con nelle mani rami di ciliegie.
Furiosi i contadini bestemmiavano
perché il grano insensibile bruciava,
nella patria non c'erano che morti
e nessuno degli uomini falciava.
Perché per quanto l'uomo si scateni
strappando carne all'uomo come un cane,
la terra indifferente
sempre continua a crescere e fiorire.
Oggi ancora il ciliegio
sulla mia terra marchigiana brilla;
di questo mese l'albero il più caro
e dei fanciulli il cielo più bramato.
Nei canestri frugando con la mano
quasi addosso a collane di rubini
il mio popolo fa dolce baccano
nel sole del mercato.
Nulla giammai egli chiede che non sia
una ridente primavera. E sempre
in questo mese cerca la sua gioia.Già sopra l'ardua strada si affatica
ansante e un poco pallida la donna
con i cresciuti fianchi
dall'amoroso seme.
E l'uomo ha altro viso
altro respiro e il passo più leggero
e l'infiammata luce delle piade
avvolge la città, dà fuoco ai muri
l'assedio d'oro.
franco matacotta
e` perche` vedo le rinate gemme
E` perché vedo le rinate gemme
che fiducioso dico: spero, credo,
giovane nuova vita, quelle ombre
divorate dal sole. Come inverno
pallido scempio che precoce viene
sull'estate dei morti, assurdo è l'uomo
e sua certezza inopportuna, quando
l'anima è offesa, grida dalle mani
la mutilata verità. Novembre
s'è allontanato con le rotte zolle
in un'eco di pioggia. Come un fumo
poi si perdono i mesi. Ora già il pruno
fiorisce, corre sopra i campi l'ala
del grano verde. Vedo. Sia fedele
l'uomo alla primavera. Io spero, credo.
paolo volponi
Bene che sia caduta
dal platano la foglia più alta,
che ricoprano il fiume
tenerissime nebbie
e la macchiola resti
greve di pioggia;
o che una fila di quaglie
ricerchino mute
il margine ombroso del bosco,
fuori della rovente stoppia
dove giace la serpe falciata;
sempre io amo queste colline
della terra di mia madre.Casa di Monlione,
per prima ti vedo
sul fianco della collina
sotto l'albero di noce.Incontro gli uomini
che portano giacche di velluto
odorose di polvere da sparo e di tabacco.
Il puledro visto nascere
scavalca la siepe della strada;
sul pozzo fiorisce il rosaio
delle rose nuziali.La goccia di sangue
nel becco del fringuello
raggela al davanzale.
paolo volponi
E` una notte
facile ed inconsueta,
così luminosa
che una cometa s'indovina
dietro l'orizzonte.
Tu sei di vetro,
io vedo le mie mani
dietro la tua nuca.
Dagli alberi d'aprile
scendono luna e vento
e dolce ne trema
la rossa lupinella.
I galli sulle colline
hanno rostri d'argento.
paolo volponi
D'autunno è con noi
ogni foglia e ghianda
ed è raggiunto il cielo.
Fra le avellane svolazza
la palomba ferita,
freme il sottobosco
agli scoppi
dei ricci di castagna.
Dolcissima è l'ultima uva
celata fra i pampini rossi,
sul fianco dei monti sale
il fumo delle carbonaie.
A sera
io provo il caldo smemorato
delle castagne,
del torbido vino,
il più nudo corpo
della mia donna.
paolo volponi
Tu sei donna
d'arioso giardino
e di terrazzo,
donna del mio paese
affacciata ai torrioni.
Gli uccelli recano i tuoi occhi
nel becco alle vallate,
come il vento di maggio
che ti ruba un nastro.
Per te colorata cometa
io svolgo la mia anima
in filo.
paolo volponi
Porgimi, amore
il tuo ramo fiorito,
la menta mattutina
nel cui cespo chiaro
ai venti incerti di Ottobre
ripara l'allodola ferita,
l'azzurro ginepro degli altipiani
prossimi alla marina.O la tua pietra
in bilico sul fiume,
la perduta foglia di salice
sull'acqua,
l'alga tenebrosa
dove un pesce invisibile respira.Amore, amore,
porgimi del tuo albero
il frutto più alto
così la tua uva nascosta
e il piccolo orto
dal pettirosso fedele;
il tuo cavallino
dalla coda leggera,
la vipera che ti beve
il latte nel seno,
l'amoroso gallo
che ti sveglia
e la civetta compagna
alle tue notti di luna.Porgimi, amore,
il tuo mutabile tempo giovanile,
l'immobile sole
e il quarto di luna
della tua esatta stagione.
paolo volponi
Tu sei l'uomo
che nelle fiere
appresti il tiroasegno
con il gallo di ferro
che colpito scoppia
sulla polvere da sparo
nel selciato.
Che scavi il pozzo,
che porti a maggio
la croce di canna
nel campo di grano.
Tu freni il puledro,
conduci la volpe prigioniera
a tutte le case;
tu fischi ai bovi
nell'abbeverata
che hanno le rane nell'orme.
Tu sei l'uomo
che porti alle ragazze
il geranio e lo sposo.
Tu arroti i coltelli e le falci.
Tu insegni il fischio ai merli
ed hai l'erba che sana
il morso della vipera.
paolo volponi
Domani è già marzo e la strada
scopre tra i frutteti il petto della contrada.
A marzo il contadino
riordina gli attrezzi e libera i confini.
A marzo i contadini
scendono verso i paesi;
si fermano nelle piazze mercatali
davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami
che odorano sotto i portali di pietra fiorita,
davanti ai negozi di ferramenta,
davanti a tutti gli spacci
con un sentore d'acqua muffita.
I vecchi si fermano alle porte;
i giovani salgono le vie cittadine.
Ormai li mischia aprile,
mese senza paura,
e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,
i mietitori, i braccianti, i legnaioli,
i muratori di campagna, gli innestatori,
gli scavatori di pozzi e di vigna,
i cercatori d'acqua e i cacciatori.
Il giorno nella città non ho paura,
stretto tra le mura è sempre luminoso,
e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;
preso alla mattina presto nei mercati,
nella profonda luce che rispecchiano
le facciate nobiliari o i porticati;
guidato per le vie al suono del selciati
sino ai vertici gentili dei rioni;
alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese
su tutte le piazze, una sopra l'altra,
di mattone o di pietra,
non è vinto dalla foglia incerta,
non predato dalle fratte di spini,
non morto nella morte degli insetti;
non arato, seminato, sarchiato,
faticato ora per ora,
dalla mattina alla sera.
Il giorno gira nella città il suo dolce sole,
muove il ventaglio alto delle nubi,
e chiama dal mare l'amorosa luce serale
che si stende su tutte le terrazze,
sui giardini pensili, sull'arcate
dalle quali soffia l'Appennino.
Si congiunge alla notte per le strade,
quando vicino s'odono risate di ragazze
verso i torrioni e voci da tutti i portoni.